“Volevo solo far notare al proprietario dell’animale ciò che è stato procurato al volto di mia figlia. Domani al rientro del turno lavorativo prenderò le dovute precauzioni”. Questo è il messaggio che Tizio (nome ovviamente di fantasia) aveva scritto sulla chat WhatsApp del gruppo di condominio. Si riferiva a una vicenda intercorsa tra bambini, sua figlia – che evidentemente mostrava qualche graffio o altro segno di lesione – e un altro bambino dello stesso condominio, oggetto della critica e accusato di essere un “animale”.
I genitori del bambino vennero a sapere del messaggio su WhatsApp e querelarono Tizio per il reato di diffamazione commesso contro il loro figlio. Il giudice di pace, invece, emise sentenza di assoluzione in quanto, secondo lui, il termine “animale” riferito al bambino era sì inappropriato ed eccessivo ma privo di “valenza di offesa dell’altrui reputazione”. Tuttavia, il Procuratore della Repubblica fece ricorso alla Corte di cassazione ritenendo che sussistesse comunque il reato di diffamazione…
La diffamazione sui social
Prima di scoprire la decisione della Corte di cassazione, conviene svolgere una premessa sulla diffamazione sui social. Offendere la reputazione di altri utenti può avere gravi conseguenze anche in ambito penale, che sia mediante un commento su Facebook, un Tweet oppure un messaggio su un gruppo WhatsApp. Pochi hanno la consapevolezza che la diffamazione sui social costituisce una forma “aggravata” di diffamazione, che può essere punita con la reclusione da sei mesi a tre anni o con una multa non inferiore a 516 euro. C’è quindi il rischio di una denuncia per diffamazione (anzi, più precisamente, di una querela) se si utilizzano in modo inappropriato i nuovi media.
Il codice penale, all’articolo 595 terzo comma, punisce infatti chi diffama “col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico”. Ora, i social sono considerati “mezzi di pubblicità” in quanto capaci di trasmettere la comunicazione ad un numero indeterminato di destinatari, al pari – se non in misura maggiore – rispetto agli altri mezzi di pubblicità.
Non tutte le dichiarazioni che offendono la reputazione altrui davanti ad altre persone, costituiscono diffamazione. Infatti, la dichiarazione astrattamente offensiva può trovare alcune “cause di giustificazione”, tra le quali – soprattutto – il diritto di cronaca e il diritto di critica. È lecito dunque denigrare qualcuno se si esercita correttamente – ad esempio – il diritto di critica. Ma cosa significa “correttamente”? Ci sono dei limiti o dei requisiti dei diritti di cronaca e di critica?
I requisiti del diritto di cronaca e di critica.
La giurisprudenza – in modo costante – ha evidenziato tre requisiti del diritto di cronaca e di critica:
- Verità. Se si attribuisce a qualcuno un fatto determinato, nell’ambito del diritto di cronaca, allora il fatto deve essere vero. Altrimenti, se è falso e lesivo della reputazione, c’è senz’altro diffamazione. La “critica”, invece, è diversa dalla cronaca nel senso che non racconta dei “fatti” ma esprime opinioni e giudizi valutativi che – in quanto tali – non si può pretendere siano rigorosamente oggettivi. Tuttavia, se la critica si basa su fatti determinati, allora questi devono essere veri.
- Pertinenza. La dichiarazione deve corrispondere ad un interesse apprezzabile dei destinatari a conoscere i fatti e le circostanze che vengono raccontate. Non è “pertinente” – ad esempio – la rivelazione di segreti intimi di una persona sulla piazza pubblica o sulla piazza virtuale…
- Continenza. La dichiarazione deve essere “contenuta” nei modi. Non si devono adoperare termini palesemente volgari o ingiuriosi. Insomma, il modo in cui ci si esprime deve essere civile.
La decisione della Cassazione
Tornando al nostro “Tizio”, si pone il problema se la sua critica fossa rispettosa del principio di “continenza”.
Ecco la soluzione adottata dalla Suprema Corte di cassazione: «La frase presenta un immediato contenuto offensivo espresso dalla parola “animale” riferita a un bambino. È vero che la recente giurisprudenza di legittimità ha mostrato alcune “aperture” verso un linguaggio più diretto e “disinvolto”, ma è altrettanto vero che talune espressioni presentano ex se carattere insultante. Sono obiettivamente ingiuriose quelle espressioni con le quali si “disumanizza” la vittima, assimilandola a cose o animali.» (Cass. penale sez. V, sent. n. 34145/2019).
La Cassazione ha quindi ritenuto che fosse stato violato il limite della continenza espressiva. Pertanto, si trattò davvero di un caso di diffamazione sui social.
Avv. A. Luis Andrea Fiore